Educare alla responsabilità

La cronaca recente presenta un’allarmante serie di gravi episodi, che si connotano per una mancanza di quello che nell’opinione pubblica si definisce “senso di responsabilità”.

Nel gergo comune, quando di tali comportamenti sono protagonisti ragazzi o giovani, si usa dire che “son fuori di testa!”. Quando si tratta di adulti, si giunge ad esclamare: «Dove hanno la testa? Non hanno un minimo di coscienza?»

Modi di dire che evidenziano uno sconcerto, che tuttavia non è unanimemente percepito. Analizzando le reazioni assai spesso si constata, infatti, da un lato una sorta di giustificazionismo, quando si è in presenza di episodi che vedono protagonisti adolescenti e giovani, dall’altro di perdonismo, quando invece si tratta di adulti, pronti - quasi sempre strumentalmente -  a chiedere perdono.

Quali siano le cause di una simile situazione, anche gli osservatori più attenti al fenomeno non danno risposte univoche. Sono pronti i più ad attribuirlo alla rapida e rilevante trasformazione della tecnologia e in particolare al diffuso utilizzo di internet e smartphone, capaci di connettere, in forme impensabili solo qualche decennio fa, il singolo con i luoghi più distanti della terra.

Se la globalizzazione generava spaesamento, ora la iperconnessione porta assai frequentemente ad un protagonismo senza regole, all’autoreferenzialità, ad una sorta di solipsismo che induce i più a farsi regola e giudizio del mondo, pretendendo di interpretarlo, quasi di volerlo “oggettivare” a proprio uso e consumo.

Il rapporto interpersonale si consuma di fatto nell’esaltazione del proprio protagonismo nei comportamenti tipici dell’aggregazione per clan, secondo la logica delle bande e delle curve nord, cercando di replicarne nel web le dinamiche, esasperandovi l’esigenza di autopromozione e di autostima nella ricerca continua del consenso del maggior numero di followers.

La schiera via via più folta dei “ricurvi sul display” manifesta sempre più spesso un complesso che si potrebbe definire di “singolitudine”, nuova sindrome che consegna chi ne è affetto al rischio di narcisismo o di depressione, in entrambi i casi all’incapacità di esercitare un corretto rapporto con l’altro e con l’ambiente, in cui correttamente ci si deve porre.

L’insegnamento dei filosofi e una tradizione di sapienza vecchia come l’umanità sottolineano l’impossibilità dell’uomo di pretendere di essere un’isola.

Basterebbe a testimoniarlo l’esperienza recente della destabilizzante condizione, con le dolorose conseguenze che ne sono derivate, provocata dal lokdown, imposto dalla pandemia.

Quel che si è sofferto è stata l’impossibilità di vedersi, di guardarsi negli occhi, di sperimentare il contatto fisico di una stretta di mano e di un abbraccio terapeutico, capace di ricollocarci in una rete di esperienze dialettiche (Karl Otto Apel) a reciproco profitto nell’ambiente valorialmente antropizzato della comunità (Dietrich Bonhoeffer, Paul Ricoeur), inserita nel più ampio orizzonte di una natura fin dalle origini affidata per il futuro all’uomo e alla sua azione (Hans Jonas).

In quei drammatici giorni era improvvisamente scomparsa la dinamica del rapporto che scaturisce dallo sguardo fisso negli occhi dell’altro, dell’attività che le neuroscienze attribuiscono ai neuroni a specchio, del processo che si attiva riflettendoci nel volto dell’altro (Emmanuel Levinas), così da generare l’empatia, che si fa antipatia o simpatia, ma che non può esaurirsi nell’indifferenza, che conduce alle nevrosi evocate.

Poiché un simile processo chiama in causa la necessità di un protagonismo che accetti e attivi tale dinamica, che metta in moto una corresponsione, che induca ad una risposta, si rende allora indispensabile ed urgente ritrovare il modo di “rialzare lo sguardo” e di riattivare il meccanismo dell’incontro.

Ciò richiede la messa in gioco di sé stessi e la necessità di maturarne la consapevolezza, di ammettere l’accettazione dell’altro, alimentando la dinamica positiva del processo empatico, che induca ad assumere atteggiamenti che evitino di degenerare da subito in contrapposizione e conflitto.

Per evitare il rischio, occorre mettere in atto l’esercizio e l’allenamento della paziente virtù dell’ascolto e dell’accoglienza dell’altro e delle sue ragioni, in una dinamica che, consolidandosi, ponga le basi per scoprire e definire in sé il profilo più autentico e originariamente umano di una coscienza e di un senso di responsabilità ritrovato e liberamente e consapevolmente esercitato (Wolfhart Pannenberg).

Virtù laica la responsabilità, che potrà essere tale soltanto se sarà esercitata innanzitutto con sé stessi.

Qual è dunque il meccanismo che ha determinato il venir meno di tali dinamiche, fino a produrre irresponsabilità diffusa, con gli episodi sempre più gravi e numerosi che i media ci segnalano ogni giorno?

 

 

 

Giacomo Francesco Cipper detto il Todeschini

La lezione del maestro, 1720-17030 ca., olio su tela

Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia

Tante le risposte, ma una tra le più convincenti appare essere quella che riconduce all’affermarsi - durante la seconda metà del secolo scorso - del modello educativo che incentivava la necessità di esaltare nel bambino, nel corso della sua crescita, la sua spontaneità, liberandone le potenzialità innate, evitando con cura un qualsiasi intervento correttivo dall’esterno che avesse un profilo impositivo o anche autoinibitorio delle personali propensioni.

S’è affievolita, se non del tutto accantonata in nome di un malinteso senso di libertà, l’attenzione all’educazione e alla crescita dell’abilità di conoscere sé stessi e i propri limiti nel rapporto con sé stessi, con gli altri e con il mondo.

Di educare, insomma, a dotarsi di consapevolezza di sé e dell’altro e ad esercitarsi a mettere in pratica i valori e il modus operandi propri di quella virtus che definiamo responsabilità, nella malriposta convinzione che, crescendo ed inserendosi nel mondo, tali processi si sarebbero poi spontaneamente generati nel giovane adulto.

Nel farsi uomo o donna avrebbe certamente potuto acquisire dall’esperienza i riferimenti necessari ad un esercizio dei rapporti interpersonali, che avrebbero dovuto lodevolmente essere improntati in ogni caso da un compiuto senso di libertà, anche per rimediare alle vive ferite dell’esperienza tragica di illibertà dei regimi del precedente trentennio italiano ed europeo.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Né paiono sortire effetto concreto gli affannosi tentativi tanto di moda di rimediare ricorrendo alla proposta di educare alla legalità.

Senza responsabilità, fatta costume e atteggiamento di vita, nessuna disposizione di legge o sistema di norme potrà evitare il senso di impunità e voglia di trasgressione che connotano lo spirito in formazione di ragazzi e giovani, non adeguatamente aiutati a conoscere sé stessi e a sapersi rapportare proficuamente e reciprocamente con gli altri, con la comunità in cui vivono e con la natura che li ospita.

Si profila, dunque, in questa stagione di grandi cambiamenti, con l’irruzione di nuove sconvolgenti tecnologie, l’esigenza di una rivoluzione che rimandi e si ispiri all’antica esortazione: “Conosci te stesso”, per essere protagonista responsabile con te stesso e con gli altri nelle grandi sfide che si profilano all’orizzonte.

Occorre recuperare, in definitiva, la consapevolezza che, pur albergando nel cuore dell’uomo i valori che lo animano, l’esercizio consapevole del senso di responsabilità non è abilità innata, va e-ducato, difficilmente si acquisisce solo vivendo.

In un rinnovato modello educativo, è necessario accompagnare il bambino nel suo processo di crescita, non soltanto a far emergere e valorizzare con la più ampia spontaneità e libertà tutte le sue potenzialità, ma anche a maturare la consapevolezza di sé stesso e ad acquisire gli strumenti indispensabili per apprendere e saper esercitare la capacità di essere responsabile verso sé stesso e nel confronto con gli altri, rispetto all’ambiente e verso il mondo.

Spontaneità e responsabilità, dunque, prendendo a prestito le parole del poeta, “tempo è forse di unirvi in un porto sereno di saggezza” (Eugenio Montale).

Lo richiedono le sfide che ci sovrastano, terribili e affascinanti.

 

 

 

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